scritto da Davide Giannella - Master ARS Ludica Rievocativa «Mio caro Lebeque, hai fatto davvero uno splendido lavoro. . .» lo sguardo del barone Germane Sallusse Courbent de Saint-Morèl, da dieci anni, quattro mesi e due giorni Primo Portabandiera Ufficiale dell’Empereur alla Parata del Solstizio d’Estate, era perso nel vuoto, sognante: vagava fra i boschi di querce del parco, sfiorava l’erba tagliata di fresco, seguiva le lievi increspature delle acque del fiume Laurent; poi ogni tanto, improvvisamente, gli occhi si facevano fessure, attenti e penetranti, e lo sguardo scendeva rapace sulle geometrie della struttura: sembrava che improvvisamente un pragmatismo aristocratico si impossessasse del barone, un brivido di potere e voluttà e un istinto da avaro scoiattolo che ha appena nascosto più provviste degli altri scoiattoli nella sua cavità arborea. Stavolta gli occhi si muovevano rapidi lungo ogni curva, ogni spigolo, ogni punta della nuova ala della Reggia e le mani morbide e abituate all’ozio, si stringevano fino a sbiancare le nocche sul parapetto della terrazza principale del Palais de Courbent Saint-Morèl, la Reggia sul Fiume. Philippe Louis Lebeque, l’Architetto, era accanto al barone da quella mattina: era stata richiesta la sua presenza come accompagnatore nella passeggiata quotidiana del nobile, un grande onore a cui non si poteva opporre rifiuto e insieme avevano camminato per un numero imprecisato di ore salvo soste in cui si ripetevano quelle scene di contemplazione sognante e attenta al tempo stesso.
«Sai Lebeque, non credevo.» «Cosa non credevate, vostra grazia?» «Non credevo nelle potenzialità artistiche della mia Reggia. Non credevo sarebbe potuta diventare così. . . magnifica e imponente. Un monito. Si dice così, no?» «Perché no, vostra grazia, perché no. . . » «A casa mia dico ciò che voglio vero Lebeque?» «É un vostro diritto, vostra grazia.» l’Architetto era immobile, diritto e quieto, non era a suo agio ma non lo mostrava, persino il volto era disteso, gli occhi socchiusi. «Sai Lebeque, ero scettico. Ero molto scettico. Sulle potenzialità artistiche di questa mia Reggia. Quei giganti lì in pietra sono perfetti, la lamina d’oro dei cornicioni, l’imponenza della pietra bianca scolpita fino al millimetro da mastri scalpellini scelti accuratamente, il legno dorato, la foglia d’oro a ricoprire ogni cosa. . . magnifico. Di gran gusto. Cambio argomento, ma voi frequentate ancora ogni tanto quegli artisti lì. . . le pecore nere?» «Vi ringrazio, vostra grazia. Sono un vostro servitore. Se vi riferite al Café des Moutons Noir, sì, talvolta. Si discute d’arte, di letteratura, ci si confronta. É sempre fondamentale confrontarsi anche solo per scoprir d’essere di parte opposta.» stavolta l’Architetto irrigidì appena la mandibola, il barone non aveva "cambiato argomento". Era proprio quello il fuoco del discorso: si stava evidentemente chiedendo come avesse fatto un affiliato al Caffè delle Pecore Nere,notoriamente dissidenti della scena artistica e letteraria contemporanea, ad aver partorito una Reggia così pienamente in gusto e stile "contemporaneo". Quando dieci anni prima il barone aveva commissionato l’espansione della sua casa di campagna, dopo la promozione a Primo Portabandiera Ufficiale dell’Empereur, Philippe Lebeque non era stato affatto fra i primi ad essere contattati. Tuttavia nessuno degli architetti aristocratici montaigne era riuscito a risolvere il problema sostanziale del Palazzo: questo secondo direttive del barone doveva essere sviluppato in lunghezza e non doveva affatto avere corpi separati per non spezzare inutilmente l’imponenza della struttura, tuttavia la Reggia era originariamente delimitata sul lato sud-ovest dal bosco che non poteva essere ridotto per necessità di caccia, una delle passioni del nobile, e dall’altro lato, quello nord-est, dal fiume Laurent. Solamente Lebeque, contattato dopo innumerevoli altri rifiuti, era riuscito a risolvere il problema, progettando un corpo gemello alla Reggia al di là del fiume e raccordando i due, il vecchio e il nuovo, con il Salon Privé. «E poi lo ammetto, Lebeque. Con il Salon Privé ti sei davvero superato. Non credevo.» Sitrattava di una grande sala, sviluppata su due piani, un salone per feste, costruito in modo da affiorare dall’acqua del fiume: l’intera stanza, in stile simile a quello del resto della villa, emergeva dal fiume grazie a sei imponenti pilastri mascherati da sculture a foggia di giganti contorti dallo sforzo sovrumano di sorreggere il peso dell’intera struttura. Il Salon era a sua volta collegato ai due corpi gemelli della Reggia da quattro camminamenti coperti, due per lato, dei tunnel porticati in legno e pietra che simili a ponti facevano in modo che il Salone Privato fosse raggiungibile direttamente dall’interno del Palazzo che risultava così effettivamente un tutt’uno. La struttura era quindi altamente simmetrica, due corpi gemelli incernierati dal Salone sull’acqua. Eppure era eccessiva, pacchiana, piena di inutili fronzoli. . . «E tu sei soddisfatto del tuo lavoro Lebeque?» chiese il barone: ora i suoi occhi erano molto attenti e scrutavano quelli dell’Architetto. Philippe Lebeque, detto Main d’Argent si grattò una guancia con la protesi d’argento leggero che sostituiva la sua mano destra, dopo aver articolato le dita finte in una posizione consona utilizzando l’altra mano; si voltò verso il barone ergendosi in tutta la sua possente e massiccia figura: «Sono molto soddisfatto, vostra grazia ma la vostra Reggia già offriva tutti gli elementi necessari. Come dite bene voi, la villa aveva del potenziale artistico, io ho solo permesso che questo potenziale scavalcasse il fiume.» ovviamente non era vero. Il barone Germane Sallusse Courbent de Saint-Morèl sorrise compiaciuto e riprese a far vagare il suo sguardo nel vuoto «Hai fatto bene il tuo mestiere Lebeque.» Lebeque non rispose ma si sporse verso il basso: erano su una delle due enormi terrazze che sormontavano il tetto dei due corpi gemelli della Reggia; dalla posizione in cui erano, vicini al parapetto, si vedeva per bene il Salon Privé affiorante dall’acqua con i suoi balconi intarsiati, le sculture, le sue decorazioni, quel gusto barocco che lui tanto odiava . . . eppure. . . si scostò una ciocca dei lunghi capelli grigi dal volto con la mano d’argento: aveva fatto un ottimo lavoro, il barone non sospettava nulla. Non era stato facile venire meno al proprio stile, assecondare il committente così passivamente, non lasciare spazio alla propria arte in nulla ed elaborarne una di così cattivo gusto che sarebbe rimasta associata al suo nome. Ma non aveva avuto scelta, il barone aveva supervisionato i lavori ogni giorno, aveva scelto in autonomia gli operai, i venditori di materiali, i decoratori e le varie maestranze: Lebeque aveva dovuto guadagnarsi la sua fiducia senza destare il minimo sospetto. Fortunatamente era stato rispettato il principio fondamentale: un solo Architetto alla progettazione. Portò le braccia dietro la schiena e incastrò il polso sinistro fra palmo e dita semichiuse della finta mano destra «Darete una festa suppongo, vostra grazia. Per l’inaugurazione?» «Sì certo. Ma dovrò portare dei cannoni qui sulle terrazze e dovrò essere certo di poter contare su tutto il mio corpo di guardia, però. » «Addirittura vostra grazia? Dei cannoni?» poi con noncuranza «Ah sapete? Credo che voi siate l’unico dell’aristocrazia della zona, e non escludo di tutta Montaigne, se non anche di Théah ad avere una stanza sull’acqua.» Gli occhi del barone tornarono a farsi attenti e ad accarezzare le decorazioni della sua Reggia «É così Lebeque? Io stavo anche pensando di organizzare la festa di inaugurazione nel Salon. . . è sufficientemente grande e soprattutto c’è già tutto lo spazio necessario per poter esporre i miei preziosi.» certo che c’era già lo spazio necessario! Lebeque aveva integrato nicchie, armadi, ganci... il Salon Privé aveva tutte le caratteristiche per diventare il serraglio di tesori di un barone ambizioso di mostrarli al resto dell’aristocrazia. Come tutti i nobili montaigne. . .A un certo punto il barone distolse quasi improvvisamente lo sguardo e si voltò «Mia cara!» Anche Lebeque si girò di scatto, aveva avuto la sensazione di essere osservato per tutto il tempo. Si irrigidì lievemente: una donna, in sontuosi abiti scuri e un velo sul volto, era comparsa sulla terrazza e si era avvicinata alle loro spalle senza dire una parola, aveva solo disteso un braccio e il barone di Saint-Morèl aveva delicatamente afferrato la punta della sua mano coperta da un lungo guanto ed effettuato un signorile baciamano. Un medaglione che raffigurava un sole, probabilmente in oro rosso, sfolgorava al collo della donna riflettendo la fredda luce del giorno invernale: era quasi incredibile come si abbinassero magnificamente la freddezza dei colori e dei modi della dama al calore pulsante di quel ciondolo. . . Poi i due si erano presi a braccetto, in silenzio, e si erano allontanati lungo la terrazza «Ah Lebeque, conto di fare una dimostrazione per l’Inaugurazione, entreranno i vari strumenti, vero?» «Certo, vostra grazia, entrerà tutto.» rispose l’Architetto alla schiena del barone che si allontanava. Quella donna velata. . . sperava non sarebbe diventata un problema. Mentre pensava ciò, l’Architetto Philippe Lebeque, Main d’Argent si rese conto che la donna si era voltata e attraverso il velo lo stava fissando.
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